restrain
| Per la serie Restrain, un progetto in corso, le sessioni di posa si svolgono nello studio completamente oscurato, al buio (una camera obscura). Le persone giacciono distese, su un fondo nero; la fotocamera è posizionata in alto, perpendicolare al viso. Viene così a mancare l’asse occhio-mirino-lente-soggetto; io mi posiziono a lato, e non ho quindi il controllo esatto dell’inquadratura; letteralmente non vedo, e il mio occhio è dissociato dall’immagine che andrà a formarsi; allo stesso modo il soggetto non vede il fotografo, e non può quindi restituire uno sguardo. Il tempo di ripresa è di circa 15 secondi; in questo tempo illumino il viso della persona con una piccola torcia tascabile, percorrendolo più volte, come con un pennello. L’impossibilità di controllare con precisione la luce mi costringe a ripetere molte volte la ripresa; il gesto del mio braccio si fa allora sempre più consapevole, sicuro e fluido, pilotato non tanto dai miei occhi quanto da una sorta di memoria interna al mio stesso corpo. È un gesto adatto al viso e al corpo della persona che è lì con me. Il gesto fotografico – normalmente associato all’atto di avvicinare la fotocamera all’occhio, inquadrare e premere il pulsante – viene così riportato alla sua esattezza etimologica: è un gesto che dipinge con la luce, e le immagini ottenute sono alla lettera foto-grafie, scritte con la luce. Queste immagini non sono mai esistite in tempo reale, perché nessun volto è mai stato illuminato simultaneamente così come appare alla fine del processo: sono immagini mai viste. Accade a volte sul set che la lunga durata della sessione, e delle singole pose, ci conduca a una sorta di abbandono trattenuto, di calma concentrata; mi sembra allora che questi ritratti siano una traccia, non tanto dei lineamenti di un volto, ma del nostro stare, come il calco di un’esperienza. Le fotografie si succedono in silenzio, una dopo l’altra, e ognuna di loro è una piccola epifania.
Restrain (2012-) |