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Una fotografia è una scomparsa luminosa; è al tempo stesso un pieno e un vuoto, il luogo visivo di qualcosa che non ha più un luogo per essere.
Quando scattiamo una fotografia, la inscriviamo in un tempo al quale noi stessi non abbiamo potuto assistere; inghiottito dalla cavità del dispositivo, quel tempo ci viene restituito congelato. Quando qualcuno viene fotografato, irrimediabilmente non è più lì. E noi con lui; la superficie della fotografia ci propone continuamente di abitare un tempo impraticabile. Una fotografia sembra quindi non arrendersi all’unico tempo che per lei è stato possibile e continua a proporci un appuntamento, impossibile perché situato in un altrove assoluto. L’atto del guardare una fotografia è così un appuntamento reiterato, che continuiamo a mancare.

 

Il corpo nudo di M. è un buco bianco, una cavità luminosa che apre una ferita nella continuità del fondo nero; una crisi nella superficie immobile e liscia. Mentre percorriamo con lo sguardo questa immagine seguendone i contorni netti, i dettagli precisi, mentre gli occhi si riempiono di queste sembianze, è come se tutto quello che di questa immagine non conosciamo continuasse a sprofondare davanti ai nostri occhi. La stranezza di questo buco incolmabile, inatteso e non pre-visto, ci sveste di ogni capacità di attribuzione di senso: una fotografia non è nient’altro che tutta l’apparenza che è.
L’apparizione del non pre-visto ci trasforma allora in veggenti, nel tentativo incessante di far precipitare lo sguardo dentro quello che è in realtà un piano impenetrabile. Nel guardare il corpo luminescente di M. questo scontro tra due forze opposte e inconciliabili, tra il movimento in avanti degli occhi e la forza attrattiva di questa apertura cieca e respingente, questa blankness, avvertiamo il contrasto tra il sentirsi toccati da una vicinanza che mai ci ha sfiorati e l’estraneità irreparabile della sua presenza. È il sentirsi raggiunti da una potenza che vivendo solo nella pura visibilità della luce e del buio ci esclude irrimediabilmente.

 

Ma la forza viva di questa sembianza fotografica, la sua gravità assoluta, derivano dalla consapevolezza che una fotografia è impensabile al di fuori delle circostanze che l’hanno fatta esistere: è un’immagine esperienziale, l’impronta luminosa di ciò che è accaduto. Troppo vicina al suo referente, al quale come spettatori siamo rinviati “per impulso cieco”, la fotografia non può accedere a una dimensione simbolica e farsi codice, e si situa in una condizione pre-verbale. Riluttanti a costituirsi in oggetto estetico sicuro e codificato, portatrici attive di una estraneità, di un’ambiguità, di un altrove che rimane selvaggio, le fotografie di M. propongono un’esperienza estetica che va ricercata non in un’ascesa verso una mistificatoria iconicità, ma al contrario in una discesa verso il brusio della traccia visiva da cui provengono.

 
Blank (2016)
Stampa Lambda su Duratrans e lightbox, 42×30,5 cm, montata su cornice in legno 55×44 cm

 

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