STATEMENT
Che cos’è un corpo quando è immagine? Cosa rimane dell’altro quando è fotografato? Qual è il senso nascosto del momento in cui nasce un’immagine?
Ed esattamente, cosa sto fotografando, quando sono di fronte ad una persona?
Queste domande mi accompagnano costantemente nel mio lavoro, una pratica al confine tra una modalità operativa lucida, programmata, non emotiva o impulsiva, e la profondità del vissuto, l’irriducibilità della memoria, la densità del tempo.
“Chi sei tu?”, è la domanda che orienta ogni esperienza sul ritratto. Le persone a cui implicitamente rivolgo questa domanda, fanno in qualche modo parte della mia vita; a volte la sfiorano soltanto, a volte ne sono coinvolte più profondamente. Le sessioni di ripresa sono di solito molto lunghe, e la loro durata è necessaria per permetterci di raggiungere una zona abitata soltanto dal corpo e dal silenzio. Non c’è mai un tentativo di restituzione psicologica della persona, o di empatia emotiva; piuttosto c’è il tentativo di ottenere una pura presenza; la dimensione superficiale propria dell’immagine fotografica convive con una profondità che è contemporaneamente la plasticità della presenza fisica e il senso di una durata: la durata della posa, del vissuto, dello sguardo. La durata della sessione è allora necessaria per permettere da un lato di lasciare, per così dire, decantare il mio sguardo dal momento in cui si posa sull’oggetto, in modo da renderlo il più possibile sgombro da desideri, da proiezioni, da immagini precedenti; dall’altro per permettere alla persona fotografata di dimenticarsi e di esaurire le possibili immagini di sé che ha da offrirmi. Ma è anche importante per me mantenere una consistenza forte dei corpi, una loro necessità che è anche la loro innocenza.
Si sa che in inglese il verbo to shoot significa sia scattare una foto, sia sparare con un’arma. Ma anche catturare, prendere, controllare, cogliere, cacciare, inseguire, inquadrare, istante, velocità – sono termini comunemente riferiti alla fotografia. È una terminologia sottilmente aggressiva, predatoria, che denota una visione della pratica fotografica come prelievo, come asportazione ed estrazione dalla realtà. Al contrario, il mio lavoro va nella direzione dell’inclusione, della continuità, della durata opposta all’istante; una continuità che si manifesta nelle pose lunghe e ferme, nello sguardo trattenuto. Sono immagini trovate, ma non colte; conservate, e non catturate.